«Akka»: un film sulla rinascita, sul ricostruire, sulla solitudine, sull’abbandono e sull’amore

Mattia de Gennaro il regista di «Akka», ecco la scheda del film,  che la giuria del festival ha ammesso alla finale 2023. Ecco cosa ha risposto alle nostre domande:

Perchè ha deciso di girare questo Film?
Le radici di “AKKA” si propagano da un come, prima che da un reale perché. Il film, infatti, è nato nel corso di una residenza artistica, tenutasi ad Accadia (FG) per volontà del vicedirettore dell’Accademia di Belle Arti di Foggia, Antonino Foti. Ricordo, limpidamente, l’idea che ha portato alla nascita della nostra storia: ovvero, una profonda attrazione verso la materia che, in qualche modo, raccoglie la vita. Un elemento che ha avuto origine prima dell’uomo e che, di conseguenza, è destinato a custodirne l’essere, l’esistenza, per poi restituirgliela, in un certo momento, per un determinato susseguirsi di eventi. In questo modo, la vita torna a esprimersi in quanto esistenza. Ad abitare il reale, dopo essere stata conversata dalla materia; nella nostra visione, dalla pietra sulla quale Accadia è stata edificata. Ecco, il come. Mi piaceva l’idea di una pietra che avesse conservato, per anni, la memoria della città e che poi, per un motivo altro, la restituisse al popolo, la cui accoglienza non fosse per nulla scontata. La storia di “AKKA” è la storia di una città che, dopo essere stata abbandonata, a seguito di due terremoti, grazie all’arrivo o al ritorno – a seconda delle interpretazioni – di una coppia di ragazzi sul suo suolo, fatto di macerie e vegetazione incombente, prende vita. Il morbido tocco, scaturito dall’amore irrefrenabile dei due ragazzi, raggiunge la pietra che ha costudito la memoria della città, per tutto il tempo in cui nessuno l’ha calpestata. Così, Accadia prende vita e lo fa assumendo le fattezze di una donna. Ed è a partire da questo momento che le viene concessa la possibilità di osservarsi dall’esterno. Di vedere in quale modo si sia evoluta la vita attorno a sé, dopo che l’ultimo terremoto l’ha costretta a essere solo un ricordo sbiadito tra coloro che, un tempo, hanno rappresentato la sua anima, il suo tutto.

Su quale tema vuole richiamare di più l’attenzione di chi lo guarda?
Quando ancora si discuteva circa le modalità di realizzazione del film, più di una persona si rivolse a noi proponendoci di realizzare un documentario etnografico e, seppure l’idea non mi dispiacesse, ero certo del fatto che avremmo potuto ottenere qualcosa in più, se avessimo avuto il coraggio di guardare oltre. Desideravo raccogliere una testimonianza inedita della città. Una traccia che, sin dal primo momento, ai miei occhi, è sempre risieduta, solo ed esclusivamente, nella città stessa. Mi sono domandato in quale modo avrei potuto raccontare di una voce che mai avrei ascoltato davvero. La voce della città, che non era – e non è – solo la voce dei suoi abitanti, dei loro avi e di tutti coloro che lì hanno trovato una casa. È qualcosa di più intenso, di più complesso. I temi, di conseguenza, non possono che essere molteplici. “AKKA” racconta di una città che ha la possibilità di comprendere le conseguenze del suo stato di abbandono, ma, in maniera quasi fisiologica, è anche la storia di una persona che, dopo essere stata costretta alla solitudine, emerge dalla sua repressione domandandosi se ci sia ancora la possibilità di sentirsi parte di un tutto, di sapersi amata e, più di qualsiasi altra cosa, di meritare – se davvero ci sia – quell’amore. Un dubbio infausto. Perché quell’amore proviene proprio dalle stesse persone che, al tempo, l’hanno abbandonata. “AKKA” è dunque un film sulla rinascita, sul ricostruire, sulla solitudine e sull’abbandono. Ma è anche un film sull’amore. L’amore che non si dice, ma si fa, si erige.

Che messaggio intende lanciare con questo film al mondo del cinema?
Il mio desiderio è quello di creare delle storie che non si concentrino su quali messaggi siano in grado o meno di diffondere. Un messaggio è un periodo definito. Una frase al termine della quale c’è un punto. Un pensiero formulato, che, all’uscita del film, scagiona l’autore dalla necessità di essere presente al fianco dei suoi spettatori per continuare a elaborarlo, ancora e ancora. Desidero fare film che interpellino il pubblico, che rendano necessaria la sua presenza, assieme alla mia. Film che interroghino e che quindi, in un certo qual modo, non finiscano mai davvero. Film multiformi, indefinibili. Perché la loro vitalità risiede nel fatto che sia indispensabile per chi li guarda continuare a porsi delle domande. Domande diverse, come diverse saranno le loro risposte. Ma se è proprio un messaggio quello che mi si chiede di indirizzare al mondo del cinema, allora mi concedo l’opportunità di esprimere quanto ho imparato, in questo percorso. Ho imparato che la solitudine non è una condizione irreversibile. Che dobbiamo ascoltarci, perché quello che proviamo è tutto ciò che abbiamo. Ho imparato che “ricostruire” è il verbo della comunità e che quindi il desiderio di uno può trasformarsi nel desiderio di tutti. Ma ho imparato, al contempo, e forse è proprio questo il messaggio di “AKKA”, che, seppure l’amore che tanto abbiamo cercato non dovesse farsi trovare, lì dove abbiamo sperato di incontrarlo, non dobbiamo smettere di cercare. Con noi, dentro di noi. Lungo le nostre cicatrici, attorno alle nostre macerie. Abbiamo il dovere di credere che un domani ci sia. Per noi e per tutto il tempo che temiamo di aver perduto, e che, in realtà, è sempre stato lì, assieme a coloro che non ci hanno mai dimenticato.

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